Ransomware ed esaurimento nervoso
La vera emergenza è umana!

Ci sono cose che le statistiche non dicono. O meglio, che dicono tra le righe. Mentre i titoli parlano di milioni di dollari persi, dati cifrati e riscatto pagato in Bitcoin, c’è una voce che resta sempre bassa, quasi impercettibile: quella delle persone.
Degli esseri umani che stanno dietro ai server, agli endpoint, ai backup. Quelli che, quando il ransomware colpisce, passano dalla gestione ordinaria del lunedì mattina al caos più totale nel giro di pochi minuti.
Nel report “La Vera Storia del Ransomware 2025” di Sophos, c’è un dato che colpisce più di ogni altro: il 100% dei team IT e cybersecurity coinvolti in attacchi con crittografia dei dati ha subito ripercussioni emotive o professionali. Tutti. Nessuno escluso.
In un contesto in cui il ransomware si evolve, diventa più sofisticato e colpisce più velocemente, il vero tallone d’Achille delle PMI potrebbe non essere un firewall obsoleto o una patch non applicata. Potrebbe essere la fragilità emotiva di un team stremato.

Quando l’attacco è personale.
Per un professionista IT, un attacco ransomware non è solo un incidente di sicurezza. È uno shock identitario. È il momento in cui ti crolla addosso l’idea di non aver protetto l’azienda. E no, non è solo una questione di responsabilità formale. È molto, molto più personale.




La cultura della colpa non protegge nessuno.
Dopo un attacco, molte aziende cadono nella trappola più facile: trovare un colpevole. La narrativa classica è “qualcuno ha sbagliato”. Così iniziano le riunioni tese, i rapporti disciplinari, i silenzi nei corridoi.
Magari un IT manager viene allontanato, la leadership cambia, si assume un “esperto esterno”. Eppure nulla cambia davvero.
Quello che andrebbe fatto è ben diverso: riconoscere che gli attacchi ransomware sono frutto di un sistema che evolve più in fretta della capacità di difendersi. Le cause?
Non solo vulnerabilità tecniche, ma ….



È un disallineamento strutturale, non un errore individuale!

Da vittime a colpevoli: il paradosso del burnout.
C’è un fenomeno sottile e pericoloso che emerge nei dati Sophos: il burnout post-attacco. Non parliamo del classico logorio da troppo lavoro, ma di una forma acuta di esaurimento che nasce dal sentirsi responsabili di qualcosa di ingestibile. È come se i professionisti IT, dopo l’attacco, passassero da guardiani silenziosi a imputati non dichiarati. dopo l’attacco, passassero da guardiani silenziosi a imputati non dichiarati.
E qui succede una cosa interessante.
In 1 caso su 4, l’attacco porta al cambio di leadership nel team IT.
Non importa se la persona avesse previsto tutto, lanciato allarmi inascoltati, chiesto budget mai concesso. È come se l’organizzazione avesse bisogno di un rito espiatorio.
E lo sacrifica.
La conseguenza? Talenti che abbandonano il settore, motivazioni che evaporano, sicurezza che si indebolisce.

Il management fa la differenza
(nel bene e nel male)

In mezzo a tutto questo, la direzione aziendale può diventare l’elemento decisivo.
Secondo Sophos:
- il 40% dei team ha percepito un aumento della pressione da parte del top management dopo l’attacco
- il 31% ha invece sperimentato maggiore stima
Cosa fa la differenza?
L’approccio. Il linguaggio. La capacità di gestire l’incidente come un evento collettivo, non come un fallimento individuale. Le aziende che supportano i propri team, che ascoltano, che investono nel post-attacco non solo evitano il collasso emotivo, ma si rafforzano.
Diventano più resilienti. Migliori.

Come si protegge una persona, non solo una rete.
La vera cybersecurity parte da qui. Non da un antivirus, non da un backup (per quanto indispensabile), ma da una domanda: come sta il mio team?
E poi: ha le risorse, il supporto, la formazione per reggere l’urto?
Servono cose semplici, ma fondamentali:
- Formazione continua e realistica, con simulazioni e scenari concreti
- Debriefing dopo ogni incidente, anche minimo
- Coaching e supporto psicologico in caso di attacchi gravi
- Pianificazione di risposta agli incidenti che includa la componente umana
- Una cultura dell’errore sana, che non punisce chi parla ma chi tace
E poi, soprattutto, serve riconoscere il valore di chi protegge i dati aziendali ogni giorno. Un firewall non si configura da solo. Un sistema non si monitora da sé. Dietro ogni azione c’è una persona che lo fa per te.

In conclusione: umanizzare la sicurezza!
Il ransomware continuerà ad evolversi. I cybercriminali troveranno nuovi modi per entrare, per ricattare, per fare danni. Su questo non abbiamo dubbi.
Ma c’è una cosa che possiamo controllare fin da subito: il modo in cui trattiamo le persone che ci proteggono.
Investire sulla salute mentale dei team IT non è un gesto altruista. È una strategia di business.
È lungimiranza. È costruire davvero una cultura della sicurezza. Perché i dati si possono cifrare. Ma la fiducia, una volta persa, è molto più difficile da decifrare.
Sophos. (2025). La Vera Storia del Ransomware 2025
https://www.sophos.com/it-it/content/state-of-ransomware



